La verità a volte fa male - I libri e i racconti

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La verità a volte fa male.
Giovanni (nome di fantasia) era un ragazzone dolcissimo di quasi trent’anni, ma con un’età psichica di dodici, ricoverato nel nostro reparto di Medicina per problemi di metabolismo in obesità grave. A quei tempi, circa trent’anni fa, era ancora consuetudine fare clinica, ovvero approfondire e ricercare cause recenti o remote di ogni forma patologica, soprattutto osservando il paziente. Trogloditica abitudine oramai scomparsa. Per farla breve, risolti i problemi dismetabolici immediati del ragazzo, avevamo intenzione e volontà di ricercarne le possibili cause originarie.
Si trattava di una sindrome adiposogenitale (nota anche come distrofia adiposogenitale o sindrome di Froehlich, dal nome del neurologo austriaco che la studiò), dovuta a produzione carente di gonadotropine ipofisarie. Nel caso specifico di Giovanni, a sua volta era determinata da presumibili fatti encefalitici in età perinatale. Questa sindrome si manifesta di preferenza nei maschi di giovane età; è caratterizzata da obesità a carico principalmente del collo, del torace, dell’addome e della radice degli arti, da mancato sviluppo delle gonadi, da sonnolenza, da sindrome metabolica, da diabete insipido e, talora, da ritardo nello sviluppo psichico. Per il trattamento (escluse remote cause tumorali encefaliche) esiste una terapia sostitutiva, con somministrazione di ormoni specifici. Così avremmo fatto, con la speranza di restituire una vita quasi normale al nostro Giovanni, ovvero una pubertà, nonché il miglioramento della sua condizione dismetabolica e chissà, magari anche contribuire ad un qualche recupero del suo ritardo psichico. Annunciammo tutto questo con un certo entusiasmo alla premurosa famiglia, sempre presente a confortare ed assistere il congiunto. Ma accadde qualcosa che non avevamo previsto: dopo aver comunicato la terapia da intraprendere vi fu da parte dei familiari un gelo incomprensibile, un silenzio attonito ed ostile. Il ragazzo venne immediatamente portato via (dimissione volontaria) e la famiglia si rese irreperibile.
Qualche tempo dopo venimmo convocati dall’assistente sociale di competenza per il territorio: «Ma voi siete pazzi! Che cosa avete combinato! Avete distrutto irrimediabilmente l’equilibrio di una famiglia!». Ebbene sì, la notizia di un possibile “recupero” del cucciolo mai cresciuto aveva destabilizzato l'intero nucleo familiare. Per quasi trent’anni il fulcro affettivo era stato Giovanni e la sola idea che potesse crescere, con tanto di peli, pene e cervello, e quindi acquisire una vita autonoma, aveva portato alla disperazione la mamma e gli altri parenti: i contorti rapporti affettivi interni s’erano sgretolati. Inconsapevolmente, con le migliori intenzioni, avevamo scatenato effetti collaterali imprevisti.
Io ed i miei colleghi restammo sbigottiti. Non osammo ribattere alcunché. Tornammo alle nostre incombenze cliniche con la coda fra le gambe. Ci rimase tuttavia il prezioso insegnamento della necessità di valutare in futuro ogni possibile conseguenza persino del più minuto atto medico. Insomma, non sempre una brillante diagnosi e la relativa terapia individuata si possono tradurre automaticamente in una buona pratica medica. Occorre valutare il contesto, l’ecosistema affettivo e di relazione oltre che quello strettamente clinico.
Bisognerebbe considerare che non solo la notizia infausta richiede cautela nella comunicazione al paziente ed ai famigliari: anche quella fausta può sconvolgere un equilibrio mentale (quante persone non si sono rovinate dopo una vincita alla lotteria?). Qualora il medico non si ritenga in grado di affrontare il colloquio dovrebbe avere l’umiltà di richiedere la consulenza dello psicologo clinico dell’ospedale (laddove non sia stato ancora eliminato), affinché valuti la giusta modalità di comunicazione.

ADDENDUM: oggi come si potrebbe affrontare diversamente un caso analogo?
È molto difficile che una simile situazione si possa ripresentare oggi. La clinica medica in Italia è pressoché scomparsa e con essa sono scomparse le “diagnosi brillanti” che esplorino cause remote. L’imperativo categorico proveniente dai vertici ospedalieri obbliga al rispetto del budget aziendale e impone l’osservanza di snervanti burocraticismi tra infinite ed inutili scartoffie. Al termine del ricovero il medico ospedaliero deve compilare una fattura (chiamata DRG/SDO), che giustifichi l’utilizzo delle risorse ed il tempo speso per ricoveri, che quindi diventano sempre più brevi. Eventuali problemi clinici rimasti in sospeso vengono di norma rimandati all’attenzione di altre strutture, ambulatori e centri specialistici territoriali, che a loro volta per lo stesso motivo non usciranno mai dal seminato del singolo quesito.
Una volta, quando si portava l’auto da un buon meccanico per cambiare le candele, magari questi verificava anche le motivazioni di una cattiva carburazione. Per la medicina è lo stesso. Il medico ospedaliero, anche se di buona volontà e raffinata cultura, deve attenersi al fatto emergenziale e gli è vietato allargare il campo d'intervento: nell’ospedale azienda e mercato sarebbe oggi un lusso intollerabile.

(Nell’immagine: ballerini, di Fernando Botero)



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