Un paziente molto insolito - I libri e i racconti

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Il signor Insomma
 
Non ricordo quale fosse il suo vero nome. Il fatto è che lì al Cottolengo, dove soggiornava ormai da tempo immemorabile, un nome non l’aveva mai avuto. Solo il soprannome, crudele come la contingenza che l’aveva generato. Il signor Insomma era un ospite di quel cronicario pieno di derelitti già prima che io vi capitassi, sospinto da un destino moderatamente maligno e dalle mie prime necessità professionali. Fresco di laurea in medicina, ansioso di sperimentare le mie potenzialità cliniche, ero ancora convinto della possibilità di salvare il mondo. Otre che me stesso.
 
Certo è che il posto, anche agli occhi di un inguaribile idealista qual ero io al tempo, sembrava davvero un girone dantesco, pieno com’era di sofferenza visibile e straziata, e abitato da creature che sembravano uscite da uno dei migliori incubi di Bosch.
 
In poco tempo mi ero abituato a tollerare quell’incredibile campionario di afflizioni. Sublimavo l’emozione procurata dalla mia sensibilità ancora virginale volgendola in interesse scientifico e furore nosografico. Non c’era patologia rara che non fosse passata di lì, stimolando la mia curiosità di diagnosta e alimentando la mia impotenza terapeutica. Era il regno degli inguaribili: ben lo sapevano sia i colleghi degli ospedali vicini, solerti nell’invio dei loro casi intrattabili, sia i parenti dei malcapitati pazienti, cui veniva suggerito il Cottolengo come approdo definitivo, una sorta di porto tranquillo nel mare procelloso della comune intolleranza.
 
Il signor Insomma, in mezzo a quell’umanità sghemba e variamente acciaccata, era gravato da un’inabilità imperfetta perfino nei suoi esiti. Non abbastanza malato fra gli insani e tuttavia ugualmente abbandonato, come una casa disabitata in un villaggio terremotato. Credo che fosse lì perché nessuno al mondo aveva potuto occuparsi di lui dopo la disgrazia. Non c’era una madre che gli facesse visita e neppure amici solleciti o conoscenti generosi. Se ne stava tutto il giorno su una carrozzina, un poco pencolante verso il lato destro risparmiato dalla paresi, con l’unico residuo piacere dei condannati a morte: un’eterna sigaretta penzolante dalle labbra storte e la forza residua del braccio destro sufficiente a procurare un viavai fra la bocca e il portacenere. Gli esiti di un violento trauma cranico si manifestavano in quell’inerte stortura ma soprattutto in una completa afasia, che gli aveva crudelmente azzerato le possibilità di comunicazione verbale. Il signor Insomma aveva dimezzato i gesti e perso le parole. Tutte, tranne una: insomma. A quell’unica parola superstite, Luigi – ho deciso che d’ora in avanti lo chiamerò così - affidava tutta la propria gamma espressiva, attribuendo infinite sfumature semantiche a quel lemma passepartout. I suoi insomma erano al contempo domanda e risposta, avverbio e interiezione, mugolii disperati o grugniti di soddisfazione, sospiri di desiderio o sbadigli di noia.
 
Arrivato ultimo dopo una moltitudine di camici bianchi più o meno volenterosi, anch’io avevo in ogni modo tentato di distoglierlo da quell’esasperante monotonia linguistica, sottoponendolo ad ogni possibile domanda o provocazione. Non c’era stato nulla da fare: Luigi rimaneva chiuso nella prigione dei suoi insomma, dalla quale irrideva gli inani sforzi riabilitativi, avvolto in una metaforica nuvola di fumo.
 
Un mattino in cui il mio giro visite (un mutilato di guerra, una bambina Down, un paraplegico, una donna in coma) mi aveva fatto pensare alla vita come a una partita a dadi in cui si perde sempre, me ne uscii al cospetto di Luigi con un’espressione da croupier distratto. «Les jeux son faits», dissi, aggiustandogli le coperte con finta allegria.  «Rien ne va plus», mi rispose, con lo sguardo improvvisamente acceso da una folle speranza. Fu come premere il grilletto di un mitra: le parole gli giunsero a raffica, con l’impeto dei desideri troppo a lungo a trattenuti, fino a scorrere con impensabile fluidità e precisione. Luigi parlava di nuovo. Benissimo, e in Francese.
 
La notizia del “miracolo” fece immediatamente il giro del Cottolengo.
 
Ben presto si formò una fila di curiosi sulla soglia della stanza di Luigi-ex Insomma, che concionava come Napoleone di ritorno da una battaglia vittoriosa.
 
A me, che gli avevo fortunosamente regalato la chance di una nuova vita sociale, Luigi riservò il privilegio di un racconto speciale, rievocando la sua vita precedente che per tanto tempo era rimasta nell’ombra.
 
Luigi era stato portiere di notte all’Hotel Gallia. Il suo era un osservatorio privilegiato di scambi ed intrighi d’alto livello. Tutti i personaggi di spicco della finanza internazionale e della politica, dello spettacolo e del malaffare quando passavano da Milano transitavano per quell’albergo. Al Gallia si consumavano incontri fondamentali, di quelli che lasciano tracce indelebili nelle lenzuola della Storia. Luigi teneva al suo lavoro notturno per il riparo economico che offriva, a fronte di una semplice inversione del ritmo sonno-veglia, ma soprattutto perché gli permetteva di godere, dietro alla conciergerie, dello spettacolo della romanzesca vita altrui.  A quello spettacolo, cui assisteva con bilanciata curiosità e ineffabile discrezione, non avrebbe rinunciato per nulla al mondo. Perciò teneva un comportamento inappuntabile e sottilmente compiacente, come pensava fosse richiesto nel suo ruolo. Era sempre pronto, a seconda dei committenti, a chiudere un occhio o ad aguzzare la vista, a rispondere in tre lingue (ah, quel Francese, provvidenziale riserva linguistica nel suo cervello lesionato!) o a tacere omertosamente.
 
Fu quella sua disponibilità, decentemente celata, a farne un facile bersaglio dei servizi segreti, che lo arruolarono fra i loro ranghi con tanto di profumato compenso a corredo di pericolose quanto vaghe “missioni”.
 
Era felice: spiava come d’abitudine. Ma ora lo pagavano!
 
Una notte però qualcosa andò storto.
 
Il buio del mistero calò per sempre su Luigi insieme alla mazzata che si abbatté sulla sua testa lasciandolo, privo di sensi e con un nuovo anonimo destino, sul selciato di una strada di Quarto Oggiaro, ben lontano dal centro città e dall’albergo dove tanto si era speso in attività e fantasticherie.
 
La vita è una gran fregatura, insomma.
 
 
(Nell’immagine, autoritratto di Francis Bacon)
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