Il pittore del "giallo" - I libri e i racconti

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Van Gogh e la Xantopsia
«Dov’è il morto?» chiese il commissario De Santis con aria svagata; dopo tanti anni, la routine del delitto lo annoiava profondamente.
«La morta – lo corresse l’agente Esposito, con maligna solerzia - è una donna. Certa Giulia Dossena, di anni 46, di professione assistente sociale. Residente in Corso San Gottardo, 35. Il cadavere è ancora là, caldo caldo - soggiunse con macabro cattivo gusto -  Ci possiamo andare subito, è verso ...»
«So dov’è – tagliò corto De Santis - Anni fa avevo una morosa che abitava in zona, ci andavo col 15». Gli occhi del commissario assunsero un’inopportuna aria sognante, mentre si lasciava andare alla rievocazione delle remote passioni giovanili. Ma si riprese subito, infastidito da un subitaneo pensiero molesto. «Perché hanno chiamato noi invece dei cugini dell’Arma? C’è giusto una caserma a due passi, in via Gentilino».
«Pare che sia un caso difficile, capo. Troppo complicato per i carabinieri. E poi la morta era una dipendente comunale, dall’assessorato alla famiglia ci stanno rompendo i coglioni che vogliono una chiusura rapida delle indagini. Siamo sotto elezioni, dottò, lei mi capisce».
De Santis annuì, anche se non capiva affatto quale importanza politica potesse avere una donna di mezza età ammazzata in casa sua. Assistente sociale, poi. Mah.
L’appartamento dell’assassinio era in una meravigliosa casa di ringhiera a sette piani (senza ascensore, porca puttana), di quelli che una volta affittavi per poche lire e ora costano come una villa in Sardegna.
La portinaia, però, era d’epoca: completa di naso aguzzo e curioso, orecchie lunghe, crocchia unta alla sommità del capo e accento milanese.  Li aggredì sulla soglia della guardiola, incurante dell’aura di autorità che doveva emanare dalle loro persone. A sua discolpa, va detto che De Santis ed Esposito erano in borghese. «Dove andate?» Piombò su di loro brandendo minacciosa una scopa. Con vendicativa soddisfazione De Santis brandì, di rimando, il tesserino. «Polizia di Stato. Commissario De Santis. Ci indichi l’appartamento di Giulia Dossena e si tenga a disposizione, per favore».
«Ah, la Dossena, poveretta. Ci sono già sui suoi colleghi, commissario».
De Santis squadrò impietosamente la portinaia: si riprometteva di spremerla adeguatamente, dopo aver visionato il luogo del delitto. È vero ciò che si dice delle portinaie: sono meglio di mille archivi informatici, per le notizie utili alle indagini. Questa sembrava fiera dell’appartenenza alla categoria e ansiosa di onorare i luoghi comuni. Mentre scortava i poliziotti lungo le scale (la Dossena, manco a dirlo, stava all’ultimo piano) snocciolava non richiesta qualche informazione sulla donna assassinata. «L’era proprio una brava tusa, commissario. Sempre gentile, sempre sorridente. Chi può averle voluto male? Magari qualcuno di quei drugà che si preoccupava di sistemare. Sa, il lavoro che faceva. E poverina, a casa c’aveva quell’altro disgrassià a cui badare. El so om, il pittore. Anca lu una volta l’era una brava persona, ma da quando ha iniziato a bere l’è cunscià da tra via. Proprio un peccato. Che l’era insci un bell’omm anca lu, prima di rovinarsi con la bottiglia».
«Come si chiama?» s’informò De Santis, ansimando un poco alla sesta rampa di scale. Stava invecchiando, ormai era buono solo per la scrivania. «Me ciami Teresina, commissario. Teresina Castiglioni».
«Non lei, intendevo il pittore, il marito della Dossena».
«Sandro Sala. Era pure famoso, una volta. So che ha venduto dei quadri suoi a una galleria in Brera». De Santis captò una nota di delusione nella voce di Teresina. S’era offesa perché non aveva visto riconosciuti i suoi meriti, povera donna. Nemmeno un po’ di considerazione, che so, una richiesta di documenti, una perquisizione…
Il commissario De Santis era diventato indifferente alla morte, ma aveva conservato una sensibilità estetica per la coreografia dei delitti.
La Dossena giaceva riversa ai piedi del letto in una pozza di sangue, una ferita da taglio, profonda, all’emicostato sinistro, all’altezza del cuore. Era una bella donna, notò De Santis, indugiando con lo sguardo sulle gambe che la gonna, risalita sulle cosce, lasciava intravedere, e sullo slip di pizzo bianco esposto alla necrofilia degli astanti. La sensualità, affatto annullata dall’irrimediabile immobilità, lasciava intuire la possibilità che quel corpo, da vivo, avesse procurato passioni a volontà.
«Commissario – proferì l’agente Esposito – il medico fa risalire la morte a 48 ore fa…»
Ma l’attenzione del commissario (che in passato aveva apprezzato la pittura impressionista e postimpressionista francese) era ora rivolta ad altro: quadri ovunque, per terra, appesi, su cavalletti, alcuni non finiti, ma tutti relativi a riproduzioni di Van Gogh, e tutti, incredibilmente, in bianco e nero. Perché mai riprodurre Van Gogh, pittore del colore per eccellenza, in bianco e nero?
«Qui qualcuno è fissato con Van Gogh, a quanto pare» la voce del Dott. Terenghi, il medico legale, fece eco ai dubbi cromatici di De Santis. «Lo sa, commissario, perché c’è una predominanza di giallo e blu nei quadri di Van Gogh?» Anche Terenghi aveva una passione dilettantesca per l’arte; De Santis l’aveva incrociato più di una volta ai vernissage più importanti. «Quella pittura sublime, in realtà, è la conseguenza di una malattia». «Già, la follia dell’artista». «Non solo, commissario. Van Gogh aveva un raro disturbo visivo, la xantopsia: un difetto di percezione dei colori che gli faceva vedere tutto giallo. Pare che fosse la conseguenza di un’intossicazione cronica da digitale, sa?». «Ecco, voi medici sapete come spoetizzare tutto» sospirò De Santis, in un accesso sentimentale che represse prontamente. «Esposito! Abbiamo rintracciato il marito?». «Sì, Commissario, risulta da ieri ricoverato al Policlinico, sa, per il suo fegato malato...i medici parlano di “follia epatica”. Di che si tratta Dott. Terenghi?».
«Una specie di squilibrio mentale provocato da tossine che il fegato non riesce più ad eliminare… Però, un bell’argomento per l’avvocato difensore, se è lui il colpevole...»
«A quanto pare, in questa casa il fegato non ce l’aveva a posto nessuno, commissario. Guardi qua». Esposito sventolò trionfante il referto di una visita medica della defunta emerso dalla perquisizione.
«Epatite cronica HCV positiva, in trattamento con alfa interferone» lesse incespicando sulle effe di alfa e interferone e impappinandosi.
Terenghi gli strappò bruscamente la cartella di mano, avvinto da curiosità professionale. «Era guarita, però. Dopo un ciclo di un anno di terapia, era guarita. C’è scritto qua: soggetto responsivo all’interferone, normalizzazione del quadro bioptico».
Il commissario De Santis pareva seguire indisturbato il filo dei propri pensieri. «Andiamo dal Sala, presto».
Al Policlinico non fecero storie per l’interrogatorio. Il paziente stava già meglio. Una flebo lo costringeva al letto e ad una indesiderata lucidità. Ma era male in arnese, con la faccia gialla ed emaciata e la pancia grossa che tendeva le coperte. Brutta bestia la cirrosi, pensò il commissario.
«Sappiamo che è stato lei - esordì bruscamente De Santis, senza preamboli - Ma perché?».
«Quella puttana mi ha rubato la vita. Egoista, era una dannata egoista». Sala non provò neppure ad opporre resistenza. Confessarsi doveva essere una liberazione, per lui.
«Aveva contratto l’epatite C e non me l’aveva detto, la stronza. Me l’ha attaccata. Mica si attacca solo l’AIDS, sa? Anche l’epatite si attacca, a stare insieme coi tossici. E lei mi ha fatto ‘sto bel regalo, l’epatite C.  Che crede? Che la cirrosi mi sia venuta bevendo? Macché.  È stato un dono della mia cara mogliettina. Lei è guarita, era una “responder” alle terapie. Io no. Ed è stato terribile, vedersi sfuggire l’appetito, la forza, tutto. Ma la cosa intollerabile è stata quella dannata complicazione agli occhi, la xantocosa. Vedo tutto giallo, un vero incubo. Ha idea cosa significa, per un pittore, non avere più l’arcobaleno a propria disposizione? Solo giallo, fottutissimo giallo piscio. E io non sopportavo più l’idea di una vita monocolore…».
Mi ha sempre affascinato l’arte medica della patografia.
Patografia: ricostruzione delle patologie psichiche di personaggi celebri fondate sulle informazioni biografiche e sull'esame delle loro opere.
Il primo patografo di Van Gogh fu il medico-filosofo Karl Jaspers, nella prima metà del XIX secolo, che affermò l’esistenza di un’occulta relazione tra l’essere pazzi e l’essere geniali e creativi.

(Nell’immagine: Van Gogh, fiori gialli)

Da Diana e Claudiano



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