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Notte fonda. È finito il turno. È ora di tornare a casa, lentamente, lungo la stretta provinciale che poi si immette sulla “Varesina”. Guido piano -
I banditi sono a viso scoperto e il primo dice all’altro: «Ci ha visto in faccia! Dobbiamo ucciderlo!» -
Poi il buio. Sono morto? Mi ritrovo per terra in un campo di granturco -
Dopo aver vagato fra campi e capannoni industriali, alle prime luci dell’alba, vengo infine trovato da una guardia giurata, portato nella locale caserma dei carabinieri e quindi al Pronto Soccorso… Ancora lì, e molto in anticipo rispetto al mio turno successivo. Fortunatamente i danni fisici sono modesti e posso tornare a casa; anche l’auto viene ritrovata non distante, con fari e motore accesi, privata dell’autoradio.
Non riporto danni fisici ma il trauma psichico è stato profondo. Strappata con violenza la “maschera” che tutti indossiamo, per molti mesi dovrò convivere con la nudità del mio stato depressivo.
In un universo parallelo non sarei qui a scrivere. Trent’anni di preparazione e studi, di esperienze e sentimenti, progetti e speranze, sarebbero evaporati nell’attimo di uno sparo, nel gelo della morte. Ed il mio nulla avrebbe sicuramente reso diverso il mondo di tutti coloro che, nei trent’anni a seguire, hanno invece interagito con la mia esistenza. Tutto per la banalità di una rapina finita male.
È credenza comune che, nell’attimo della morte, rimanga impressa per sempre nella retina, l’ultima immagine bella. Quell’immagine, forse per uno strano intersecarsi di universi paralleli, di porte scorrevoli che si aprono dischiudendo possibilità opposte, è rimasta impressa nella mia retina. Sono due occhi azzurrissimi e dolci, pieni di amore ed abbandono. Era troppo tardi, quella notte, non tornavo a casa dall’ospedale. Occhi visti in una notte di passione. In un universo parallelo.
(Nell’immagine: Universi paralleli, Maurits Cornelis Escher)