M come MÜnchhausen - I libri e i racconti

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M come MÜnchhausen
“Nella guerra contro i turchi, dopo la battaglia, condussi il mio cavallo lituano alla fontana nel mezzo della piazza per abbeverarlo. Si mise a bere incessantemente, senza che questo avesse mai fine. Strano! Ebbi presto la spiegazione di questo singolare fenomeno: volgendomi per guardare sei miei soldati arrivavano, che immaginate voi che vedessi, signori miei? Tutta la parte posteriore del mio cavallo era assente e tagliata di netto. L’acqua scorreva per di dietro via via ch’entrava per davanti, senza che l’animale ne serbasse niente”.
Questa è solo una delle tante mirabolanti storie Karl Friedrich Hieronymus von Münchhausen, un militare tedesco del 1700, personaggio a cui si è ispirato Rudolf Erich Raspe per il protagonista del romanzo “Le avventure del Barone di Münchhausen”.
Il vero protagonista era infatti divenuto famoso per i suoi inverosimili racconti e le  sue storie furono collezionate e pubblicate da un autore anonimo nel 1781. Una versione in inglese venne pubblicata a Londra nel 1785 da Rudolf Erich Raspe. Nel 1786, Gottfried August Bürger tradusse le storie di Raspe in tedesco e le estese.
La predisposizione a “cacciare balle” è oggi un particolarissimo disturbo psichiatrico con il nome eponimo del famoso Barone. Tale nome venne attribuito, da un medico ricercatore inglese negli anni ‘50, ad una forma inusuale di autolesionismo da lui individuata. Il soggetto affetto da tale sindrome, solitamente acculturato in medicina, cerca in ogni modo di millantare segni e sintomi per ricevere attenzioni e cure da vari specialisti e poter accedere a procedure diagnostiche invasive ed interventi anche di chirurgia maggiore; viene chiamata anche sindrome da “dipendenza da ospedale”. Si tratta chiaramente di una patologia psichiatrica a carattere anticonservativo, sebbene ad affrontarla inconsapevolmente nella fase iniziale non siano psichiatri ma medici internisti e chirurghi. Un’altra caratteristica di tale soggetto è quella di peregrinare da ospedale in ospedale, in diverse regioni e talvolta nazioni, fuggendo dai luoghi dove sono stati “scoperti”.
Un chirurgo americano ebbe l’idea di eseguire durante l’intervento la sutura finale a forma di lettera EMME (iniziale di Münchhausen), per trasmettere un segnale indelebile ai futuri ed ignari chirurghi di altri ospedali. La sindrome è drammaticamente sottostimata (alcune stime la pongono fra l’1% e il 5% degli accessi ospedalieri). In particolare in Italia è pressoché sconosciuta.
In tempi di medicina difensiva, di aziendalizzazione degli ospedali, di mercato osceno della diagnostica, di parcellizzazione superspecialistica della medicina, della progressiva scomparsa di un medico unico curante con competenze internistiche, tali soggetti trovano terreno fertile e ben difficilmente vengono individuati.
Questa è un’esperienza personale: ho “inseguito” per anni la Signora D.A., con ricerche anche al di fuori del mio ospedale, presso svariati reparti nosocomiali e colleghi specialisti. Ma è la storia di un fallimento: ha vinto lei ed è sempre riuscita a fuggire prima di essere scoperta, non ebbe cioè mai una valutazione psichiatrica, quindi una precisazione diagnostica e le conseguenti cure adeguate. Inizialmente, nel corso di due ricoveri presso il mio reparto ospedaliero di medicina, ebbi modo di valutare come le alterazioni di esami e segni da lei presentati fossero incongrui. In particolare ricordo che disposi un esame estemporaneo delle urine, non per valutarne la chimica ma per misurarne, a sua insaputa, la temperatura, che ovviamente risultò normale, a fronte di una misurazione ascellare sempre fraudolentemente “alterata”. In tempi lontani, in assenza di tecniche diagnostiche moderne e non invasive (TAC, RMN, PET, ecc), gli accertamenti finali, in casi complicati, venivano affidati alla “laparotomia esplorativa”, ovvero aprire chirurgicamente la pancia e valutare direttamente la sussistenza di forme patologiche. A questo mirava la paziente, “competente” ed informata sulla medicina di allora. Le mie indagini si estesero a quasi tutti i precedenti interventi chirurgici effettuati sulla paziente (appendicectomia, colecistectomia, isteroannessiectomia, mastectomie parziali, ecc); i chirurghi contattati, in camera caritatis, mi confessarono che le motivazioni alle operazioni erano sempre state molto “labili” e spesso eseguite perché la paziente chiedeva pressantemente di intervenire. Al momento della resa dei conti, due improvvise “dimissioni volontarie”, con la fuga della paziente, impedirono la definizione delle mie conclusioni diagnostiche. E così si comportò, successivamente, in un altro reparto ospedaliero, dove l’avevo rintracciata. Non conosco il suo destino, ma temo che la sua perseveranza sia stata infine “premiata” in chissà quale ospedale, considerando che i ripetuti interventi chirurgici, alla lunga, determinano essi stessi delle complicanze patologiche (per esempio sviluppo di briglie aderenziali in cavità addominale).
Mi chiedo quanti pazienti come la signora D.A. ci siano, ci siano stati e ci saranno, indiagnosticati nella loro effettiva patologia (psichiatrica).

“Una volta nel mar Mediterraneo corsi un pericolo davvero tremendo. Facevo il bagno fra gli scogli quando vidi un enorme pesce che con la bocca spalancata, pronto per divorarmi, mi veniva incontro con la velocità di un lampo. Impossibile evitare di essere ingoiato! Presi una rapida decisione: mi feci più piccino che potei, nascosi la testa fra le spalle, serrai le braccia contro il corpo, e attraversai così la gola del pesce, scendendo dritto nel suo stomaco senza farmi il più piccolo male. Dentro il corpo dell’animale, come è facile immaginare, trovai la più completa oscurità e un calore insopportabile. Grazie alla mia fertile fantasia e al mio sangue freddo ebbi subito un’idea geniale: decisi di far venire un terribile mal di pancia al pesce e cominciai a saltare, a dimenarmi, a ballare la tarantella dentro di lui. Alla fine non ne poté più e, gemendo in modo spaventoso, il grande pesce si drizzò fuor dell’acqua con metà del suo corpo. In quel momento una nave usciva dal porto e i marinai, nel vedere quello spettacolo straordinario, fermarono il bastimento, si armarono di uncini di ferro e in pochi minuti lo uccisero. Dopo aver trasportato il corpo a riva si apprestarono a farlo a pezzi per ricavarne la maggior quantità di olio, con mia grande paura, perché le scuri ed i coltelli avrebbero potuto affettare anche me… Appena aperto il ventre mi misi a gridare con quanto fiato avevo in gola. Come descrivere la meraviglia che si dipinse su quelle facce, quando la mia voce uscì dalle viscere del pesce? Figuratevi poi quando videro uscire da quel corpo un uomo non più vestito del nostro padre Adamo quand’era nel paradiso terrestre! Raccontai loro la mia avventura e rimasero tutti a bocca aperta. Se ho calcolato bene, ero rimasto circa tre quarti d’ora nello stomaco del pesce”.

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