La prima fila - Consulenze e Consolanze Medico Filosofiche

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La prima fila

I PAZIENTI DEL DR. CLAUD


Immagini di eserciti napoleonici e britannici che, ordinatissimi, si fronteggiano avanzando piano, gli uni di fronte gli altri.  A venti metri di distanza fra loro le rispettive prime file si arrestano, si inginocchiano e prendono con calma la mira: tutte le rispettive prime file saranno falciate. E le seconde file diventeranno le prime… Nell’avanzare della vita ci avviciniamo tutti alla prima fila.

Sono finalmente tornato in corsia, dopo una settimana di corvé passata in Pronto Soccorso. L’incontro con i nuovi pazienti mi suscita poco entusiasmo: mi annoia il défilé di consuete patologie usuale in un reparto di Medicina. Sono i particolari a creare empatia con i malati.
Mentre l’infermiera ed i colleghi recitano le loro litanie (il “34” ha la febbre, la “18” ha il cagotto, la “22” rantola) cerco allora indizi di storie di vita, magari desunti da semplici dati anagrafici.

La Signora Cesira la gaveva un fieu disgrasià

La Signora Cesira, portinaia da cent’anni, mi parla della sua diabete - sempre al “femminile” per i pazienti meneghini - e dei dulur ai reumi. Ma il suo pensiero, mentre gli occhi le si velano di lacrime, è per il figlio sciagurato, che non c’è più: una brutta storia di tossicodipendenza. Morto a trent’anni appena, una gioventù buttata via per l’ultimo buco… Meglio non completare la visita, terminerò domani l’anamnesi. Cambio allora discorso con una battuta sul suo vezzoso foulard, le chiedo se è comoda nel suo nuovo letto d’ospedale e se ha mangiato le golose caramelle che nasconde nel comodino… Le torna il sorriso e già questo rappresenta metà della terapia. Almeno i dulur si sono attenuati.

Compagni di scuola


La signora Monica è una nuova arrivata, donna molto sofferente per patologia oncologica terminale, con bianchissimi capelli corti e ben curati. Di cosa potrò mai parlare con questa nuova paziente? Mi cade l’occhio sulla data di nascita e faccio un balzo: siamo coetanei, anzi è più giovane di me di tre settimane! Un secondo balzo quando verifico la residenza: è di Cadorago, dove anch’io trascorsi parte dell’adolescenza... Quindi, quindi eravamo compagni nell’unica scuola del paesello! L’imbarazzo generato dalla scoperta è palpabile in entrambi.
Non posso fare a meno di ricordare Cinzia, la sua compagna di banco e mia prima infatuazione. A quell’età portavo ancora i calzoni corti mentre le compagne uscivano con “quelli grandi”.
Continuiamo con crescente disagio la rievocazione delle comuni conoscenze, per scoprire che l’Aldo e il Torretta (non ricordavamo il nome di battesimo) non ci sono più.  
Il malessere cresce e mi prende un groppo alla gola. Sia ringraziata l’infermiera che mi chiama per dosare l’insulina di un altro paziente.
Non entrerò più in quella stanza… Un collega si è (fortunatamente) ammalato e dovrò sostituirlo in Pronto Soccorso!

Ma quella sgradevole sensazione era destinata a ripetersi da lì a breve con un nuovo ricovero, sempre di notte. Una donna anziana di aspetto ma anch’ella mia coetanea: io di settembre, lei di maggio dello stesso anno. La residenza è quella del paese dove, tantissimi anni prima, frequentai le medie inferiori. Alla visita appare, come un disarmonico pallone, un seno protesico. Uno solo, l’altro è una dura piega avvizzita che suggerisce la grave patologia cui è affetta.
«Credo che abbiamo frequentato la stessa scuola e classe...» le dico timidamente concludendo la visita. «Non è possibile... Lei è così giovane, non può essermi stato compagno di classe...».
Resto imbarazzato in lungo silenzio e mentre mi accingo ad andarmene ricordo i comuni compagni e rimprovero me stesso per aver perso una preziosa occasione per tacere.
Successivamente alle visite delle mie ex compagne di scuola, ormai irriconoscibili, un giorno, passando davanti allo specchio del bagno di servizio, vedo riflesso il mio volto e penso a "Il ritratto di Dorian Gray” di Oscar Wilde.  Mi chiedo quando avrei fatto questo scellerato patto col diavolo. Eppure in cuor mio so che, nonostante il mio aspetto, mutazioni profonde nell’animo e nel corpo sono avvenute anche in me.

L’inferno è qui, è ora

Ci sono notti nelle quali l’inferno è qui, è ora. Ci sono notti in cui stare in ospedale da malati o da medici non fa poi questa grande differenza. Nell’asfissiante calura di un’estate afosa, in camerate sovraffollate prive di aria condizionata, si condivide la buia inquietudine della notte. Dal vicino reparto di pediatria arriva il pianto incessante di un pargolo che strilla con tutto il fiato che ha in corpo. Gli fa eco il lontano latrato di un cane alla luna. Le pene del mondo pare si siano tutte date appuntamento proprio qui, a scandire l’assioma che vita è dolore.
Ecco giungere il trillo di un campanello, stridulo in fondo alla corsia.
«Hanno suonato!» urla Francesca dall’infermeria, come se non avessi sentito... L’accordo con gli infermieri del turno di notte - due per sessanta malati - è di andare a vedere anche con il medico gli insonni e i dolenti che chiamino dopo le due. Sono le quattro, appunto.
Stordito di sonno - nel frattempo mi ero appisolato nel mio studio - ed appiccicaticcio di sudore, mi avvio barcollando nel corridoio delle camerate degli uomini. Francesca arranca sbuffando davanti a me. Entriamo nella camerata scampanellante. Vedo il pavimento muoversi. Penso di essere davvero stanco e sento che sto avendo un capogiro. Forse sto per svenire. Forse sto per morire, e nessuno mi soccorrerà perché il medico che dovrebbe farlo sono io. Accendo la luce.
Non credo ai miei occhi: un brulicame impazzito di scarafaggi corre nella stanza per ogni dove, per terra e perfino sui letti di tre vecchietti moribondi, dalle bocche spalancate a cercare l’ultimo fiato.
Io e Francesca urliamo all’unisono e scappiamo terrorizzati.
Il dovere ci costringe dopo poco tempo a tornare in quella stanza. Per incanto tutto è in ordine, le “bestiole”, anch’esse terrorizzate, sono tutte fuggite, i malati sembrano aver ripreso un respiro normale, il bimbo della pediatria non piange più, dalla finestra aperta entra la prima luce dell’alba con il cinguettio di un passero mattiniero e dalla cucina arriva un buon profumo di caffè; tutto sembra tornato alla normalità.  E tutto sarà bonificato.

I brividi della notte

Vengo chiamato per Claudio, mio quasi omonimo e coetaneo: non respira più, se ne è andato senza un lamento, nella notte, nel buio solitario di un affollato camerone di degenza. Era ricoverato solo da tre giorni per un tumore polmonare in stadio avanzato.
Ma lo strazio più grande è stato quello di dover avvisare l’anziana madre. La morte era sì attesa, ma non così presto. «Signora, non si affretti a venire nella notte… non serve affrettarsi».  Fa molto caldo, ma un brivido gelido mi percorre la schiena. Al suo arrivo non occorre dire nulla, sa già tutto, le stringo la mano e capisce che vorrei abbracciarla, ma non posso.
Si dice che in tempo di pace i figli seppelliscono i genitori - doloroso ma naturale - e in tempo di guerra sono i genitori a seppellire i figli, in uno strazio inenarrabile... Quante volte ho dovuto assistere a questo strazio! La guerra per noi, popolo dell’ospedale, non finisce mai.

La ferita di guerra

A metà degli anni Ottanta in Pronto Soccorso si presentò un robusto ragazzone sui trent’anni, tale Gianni Rizzo, per disturbi di scarso rilievo. Alla visita, scoperto l’addome, rimasi sconcertato: esiti cicatriziali mostruosi ricoprivano l’intera superficie cutanea. «Che cosa è successo? Che cosa ha provocato un tale disastro?». Dopo un sospiro rispose: «È una ferita di guerra, ma la ferita più grande è dentro il cuore, l’amico commilitone che era accanto a me non c’è più». Ancora più sconcertato chiesi: «Quale guerra? L’Italia non combatte dalla seconda guerra mondiale!». «Non sono italiano, se non di origine, ma argentino e ho combattuto la guerra delle Malvinas. Mi trovavo su una nave ospedale insieme all’amico commilitone Andrea, marconista della nave, quando un vile siluro lanciato da un sottomarino ha sconquassato ed affondato la nave! Iddio stramaledica gli inglesi!»
Era la guerra delle Falkland, chiamate Malvinas dagli argentini.
Alla vigilia della guerra l'Argentina si trovava nel pieno di una devastante crisi economica e di una contestazione civile su larga scala contro la giunta militare che governava il paese. Il governo, guidato allora dal Generale Galtieri, decise di giocare la carta del sentimento nazionalistico lanciando quella che considerava una guerra facile e veloce per reclamare le isole Malvine, di cui l'Argentina rivendicava la sovranità. Nonostante fosse stato colto di sorpresa dall'attacco argentino sulle isole dell'Atlantico meridionale, il Regno Unito organizzò una task force navale per scacciare le forze argentine che avevano occupato gli arcipelaghi, e riconquistò le isole con un assalto anfibio. Dopo pesanti combattimenti, i britannici prevalsero e le isole rimasero sotto il controllo del Regno Unito. Margaret Thatcher dimostrò che aveva la capacità di guidare con successo la propria potenza militare anche in una guerra ad enorme distanza dalla madrepatria.
Il ragazzone si mise a piangere dimenticando i motivi dell’accesso in Pronto Soccorso. Rimasi con lui a lungo ad ascoltare il racconto dettagliato della sua tragedia e a condividere il ricordo dell’amico. Questa fu l’unica ed efficace terapia.
Non gli espressi i miei dubbi: forse gli stramaledetti inglesi qualche ragione ce l’avevano; e mi parve strano che vi fossero militari su una nave ospedale.

La prima linea

Immagini di eserciti napoleonici e britannici che, ordinatissimi, si fronteggiano avanzando piano, gli uni di fronte gli altri.  A venti metri le rispettive prime file si arrestano, si inginocchiano e prendono con calma la mira: tutte le rispettive prime file saranno falciate. E le seconde file diventeranno le prime… Nell’avanzare della vita ci avviciniamo tutti alla prima fila.

(Nell’immagine: la battaglia di Austerlitz)



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