Il deserto dei Tartari - Consulenze e Consolanze Medico Filosofiche

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Il deserto dei Tartari

Frammenti autobiografici


All’inizio degli anni Settanta non c’erano telefoni cellulari e tantomeno satellitari, l’etere del mondo era sgombro dalle frequenze della “comunità globale sempre in contatto”, il termine interNET poteva al massimo evocare una spiritosa impresa di pulizia e GPS era l’acronimo di un’auto sportiva…
In quel piccolo mondo antico una gita alpina poteva tramutarsi da semplice escursione in temeraria avventura himalayana.
Eravamo un terzetto stranamente assortito: due ragazzotti ventenni - io e l’amico Enzo, scanzonato “peon” della contestazione globale - e il Sig. Del Ponte, padre di un nostro caro amico, all’epoca recentemente scomparso in un incidente di montagna. Il Sig. Del Ponte, di fatto, non aveva un nome di battesimo, nascosto e poi dimenticato dal cognome importante e dallo sguardo severo. Che cosa spingesse quell’anziano – aveva l’età indefinibile di tutti i padri in odore di pensione - a partecipare alle nostre passeggiate alpine, non si saprà mai. Forse era il grande dolore per la perdita del figlio a portarlo a frequentare gli amici del suo Gianluca, ripercorrendone gli stessi itinerari ed emozioni. Il suo assoluto silenzio a riguardo, unitamente ad una caratteriale riservatezza, ci impediva di approfondire l’argomento.
Anche Enzo, malgrado la goliardica allegria di superficie, era molto riservato e nessuno conobbe mai i suoi veri sentimenti. Di lui ricordo l’acre afrore di maschio post-adolescente, capace di stendere una qualsiasi femmina ad un miglio di distanza. E nessuno ha mai scordato la povera Lucia, cotta persa dell’Enzo nell’estate precedente, che, in un rabbioso impeto ormonale per il “rifiuto”, si era esibita in un lancio di affilati coltelli da cucina… fortuna volle che l’abilità di mira non fosse pari all’intensità dell’incazzatura, con conseguente immeritata salvezza del nostro sciupafemmine.
Scampato al pericolo, Enzo aveva conservato immutata la spavalderia, contribuendo alla temerarietà della nostra escursione. Gli obbiettivi erano il ghiacciaio e poi la cima della Tête du Rutor, desolato bastione di confine tra la Val d’Aosta e l’Alta Savoia francese; molto sconsiderata era stata la scelta di programmare il periodo - fine ottobre - e l’orario di partenza da Milano - tarda mattinata-.
Tuttavia, forniti di picca e ramponi, bussola ed una obsoleta carta dell’Istituto Geografico Militare - peccato fosse di cent’anni prima - avevamo ben congegnato l’escursione: salita pomeridiana ad un rifugio in quota (dove ci attendevano degli amici partiti il giorno prima); avremmo quindi affrontato il ghiacciaio e la vetta il giorno seguente. Il tempo era splendido in un’eccezionale tersa giornata d’autunno, nell’esplosione dorata del migliore foliage.
Eravamo allegri e sereni alla partenza, ahimè oltre mezzogiorno. Seguimmo un abbozzo di sentiero privo di segnaletica, ma non poteva essere che quello indicato dalla mappa, tanto più che sul crinale sommitale si distingueva una costruzione, il verosimile rifugio alpino dove attendevano gli amici che ci precedevano.
È incredibile come anche in Italia possano esserci luoghi rimasti completamente selvaggi: non una casa, non un viandante, non un segnale per chilometri e chilometri. Noi e l’incontaminata natura, nello sfavillio coloratissimo dell’autunno!
La salita fu lunga e faticosa, ma eravamo giovani, vigorosi nel corpo e nello spirito. Il Sig. Del Ponte, malgrado l’età ed un lieve sovrappeso, animato da misteriose forze interiori, teneva la testa al gruppo. In alcuni tratti il sentiero era “crollato” e fu necessario fare “roccia” per ricongiungerci al successivo moncone spezzato.
Con me avevo portato la nuova cinepresa “doppio otto”, per immortalare le splendide vedute di montagna nella luce ormai crepuscolare.
Dopo lungo cammino infine gridammo «Siamo arrivati!». Ma, ahinoi, non era l’atteso rifugio, si trattava invece di un fortilizio di confine con la Francia, diroccato, scoperchiato e colmo di neve al suo interno.
Dietro di noi c’era il percorso fatto, ormai inseguito dalle ombre della notte, davanti lo struggente spettacolo di un rossissimo sole di tramonto, la cui luce veniva moltiplicata dallo specchio di ghiacciai lontani e, sotto, un vertiginoso strapiombo a precipizio su un lago di colore blu così intenso da non averne mai visto di simili.
«E ora che cosa facciamo?». Mentre i compagni di sventura consultavano freneticamente carta e bussola, io, incantato e senza scompormi, riprendevo cotanta bellezza col prezioso “doppio otto”.
La situazione era molto preoccupante. Eravamo completamente fuori strada a tremila metri di quota, sul fare della notte, in autunno avanzato, impossibilitati a procedere avanti per lo strapiombo, ma anche di tornare indietro sullo stesso sentiero reso difficoltoso dai “crolli” e dal buio incipiente. I telefoni satellitari per il soccorso dovevano ancora inventarli.
«La carta, la carta IGM! Forza! Cerchiamo la posizione effettiva con l’aiuto di bussola ed altimetro! Che follia, siamo lontanissimi dal corretto percorso e dalla meta! Tuttavia è segnato, non distante, un altro rifugio! - ricordo il nome, il rifugio del Mon Pelà - Occorre raggiungerlo, finché c’è ancora luce… da lì partirà sicuramente un sentiero che riporti valle, più sicuro e magari segnato…».
Dopo un’ora di cammino arrivammo, quasi a notte, al Mon Pelà ed accendemmo le nostre pilette zinco-carbone. Non si trattava però di un vero rifugio, era la Fortezza Bastiani del tenente Drogo, solitaria, desolata, da secoli abbandonata, in eterna attesa di improbabili Tartari… “laddove domina una malia e la certezza assoluta di non poter mai più tornare indietro”.
Fortunatamente l’alternativo sentiero di discesa a valle esisteva ancora e, ormai in piena notte, ci apprestammo a percorrerlo. Nella notte senza luna si accesero le stelle, così brillanti da sembrare non astri ma tappeto di diamanti!
Le sempre più fioche “zinco-carbone”, esaurite, ad una ad una si spensero ed il sentiero si presentò nuovamente a tratti crollato. Pertanto dovemmo ancora affrontare pericoli da rocciatori per riuscire a riprendere il successivo moncone spezzato, ma con un vantaggio… al buio non si vede lo strapiombo.
A tarda notte arrivammo a valle, stravolti ma salvi; eravamo inoltre in apprensione per i nostri amici, che immaginavamo preoccupati per non averci visto arrivare al rifugio e, sospinti da un’ansia crescente, forse indotti ad una precipitosa discesa per chiamare i soccorsi.
Stanchi, dopo aver riposto nel bagagliaio dell’auto scarponi e zaini, fummo accecati dalla lucina dell’abitacolo: pareva un faro da stadio, tanto le nostre pupille erano state dilatate dal buio e dalla paura.
Ci fermammo a dormire in un alberghetto a fondo valle: l’indomani, di buon’ora, saremmo dovuti salire al vero rifugio per tranquillizzare gli amici, questa volta con migliori indicazioni sul percorso. Il sentiero del giorno prima era solo “un po’ più in là” di quello corretto e naturalmente avevamo preso quello sbagliato...
A mezzodì di una giornata radiosa di verdi, bianchi e blu assoluti arrivammo infine al corretto rifugio, giusto in tempo per incontrare il gruppo di “amici” al loro rientro dall’ascensione al ghiacciaio, per nulla messi in allarme dal nostro ritardo…
In particolare ci venne incontro il “caro” Marco, baffo curatissimo ad incorniciare un volto antipatico e a segnare la sbalorditiva statura di un metro e un pollice: “Ehilà chissivede! Ma che avete fatto ieri notte? Bisboccia?”
Gli opponemmo un silenzio complice ed ostile.
La montagna, bellissima e selvaggia, restava impassibile alle nostre vicende, ed indifferente sarebbe rimasta anche all’improbabile arrivo dei Tartari.

 
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