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All’inizio degli anni Settanta non c’erano telefoni cellulari e tantomeno satellitari, l’etere del mondo era sgombro dalle frequenze della “comunità globale sempre in contatto”, il termine interNET poteva al massimo evocare una spiritosa impresa di pulizia e GPS era l’acronimo di un’auto sportiva…
In quel piccolo mondo antico una gita alpina poteva tramutarsi da semplice escursione in temeraria avventura himalayana.
Eravamo un terzetto stranamente assortito: due ragazzotti ventenni -
Anche Enzo, malgrado la goliardica allegria di superficie, era molto riservato e nessuno conobbe mai i suoi veri sentimenti. Di lui ricordo l’acre afrore di maschio post-
Scampato al pericolo, Enzo aveva conservato immutata la spavalderia, contribuendo alla temerarietà della nostra escursione. Gli obbiettivi erano il ghiacciaio e poi la cima della Tête du Rutor, desolato bastione di confine tra la Val d’Aosta e l’Alta Savoia francese; molto sconsiderata era stata la scelta di programmare il periodo -
Tuttavia, forniti di picca e ramponi, bussola ed una obsoleta carta dell’Istituto Geografico Militare -
Eravamo allegri e sereni alla partenza, ahimè oltre mezzogiorno. Seguimmo un abbozzo di sentiero privo di segnaletica, ma non poteva essere che quello indicato dalla mappa, tanto più che sul crinale sommitale si distingueva una costruzione, il verosimile rifugio alpino dove attendevano gli amici che ci precedevano.
È incredibile come anche in Italia possano esserci luoghi rimasti completamente selvaggi: non una casa, non un viandante, non un segnale per chilometri e chilometri. Noi e l’incontaminata natura, nello sfavillio coloratissimo dell’autunno!
La salita fu lunga e faticosa, ma eravamo giovani, vigorosi nel corpo e nello spirito. Il Sig. Del Ponte, malgrado l’età ed un lieve sovrappeso, animato da misteriose forze interiori, teneva la testa al gruppo. In alcuni tratti il sentiero era “crollato” e fu necessario fare “roccia” per ricongiungerci al successivo moncone spezzato.
Con me avevo portato la nuova cinepresa “doppio otto”, per immortalare le splendide vedute di montagna nella luce ormai crepuscolare.
Dopo lungo cammino infine gridammo «Siamo arrivati!». Ma, ahinoi, non era l’atteso rifugio, si trattava invece di un fortilizio di confine con la Francia, diroccato, scoperchiato e colmo di neve al suo interno.
Dietro di noi c’era il percorso fatto, ormai inseguito dalle ombre della notte, davanti lo struggente spettacolo di un rossissimo sole di tramonto, la cui luce veniva moltiplicata dallo specchio di ghiacciai lontani e, sotto, un vertiginoso strapiombo a precipizio su un lago di colore blu così intenso da non averne mai visto di simili.
«E ora che cosa facciamo?». Mentre i compagni di sventura consultavano freneticamente carta e bussola, io, incantato e senza scompormi, riprendevo cotanta bellezza col prezioso “doppio otto”.
La situazione era molto preoccupante. Eravamo completamente fuori strada a tremila metri di quota, sul fare della notte, in autunno avanzato, impossibilitati a procedere avanti per lo strapiombo, ma anche di tornare indietro sullo stesso sentiero reso difficoltoso dai “crolli” e dal buio incipiente. I telefoni satellitari per il soccorso dovevano ancora inventarli.
«La carta, la carta IGM! Forza! Cerchiamo la posizione effettiva con l’aiuto di bussola ed altimetro! Che follia, siamo lontanissimi dal corretto percorso e dalla meta! Tuttavia è segnato, non distante, un altro rifugio! -
Dopo un’ora di cammino arrivammo, quasi a notte, al Mon Pelà ed accendemmo le nostre pilette zinco-
Fortunatamente l’alternativo sentiero di discesa a valle esisteva ancora e, ormai in piena notte, ci apprestammo a percorrerlo. Nella notte senza luna si accesero le stelle, così brillanti da sembrare non astri ma tappeto di diamanti!
Le sempre più fioche “zinco-
A tarda notte arrivammo a valle, stravolti ma salvi; eravamo inoltre in apprensione per i nostri amici, che immaginavamo preoccupati per non averci visto arrivare al rifugio e, sospinti da un’ansia crescente, forse indotti ad una precipitosa discesa per chiamare i soccorsi.
Stanchi, dopo aver riposto nel bagagliaio dell’auto scarponi e zaini, fummo accecati dalla lucina dell’abitacolo: pareva un faro da stadio, tanto le nostre pupille erano state dilatate dal buio e dalla paura.
Ci fermammo a dormire in un alberghetto a fondo valle: l’indomani, di buon’ora, saremmo dovuti salire al vero rifugio per tranquillizzare gli amici, questa volta con migliori indicazioni sul percorso. Il sentiero del giorno prima era solo “un po’ più in là” di quello corretto e naturalmente avevamo preso quello sbagliato...
A mezzodì di una giornata radiosa di verdi, bianchi e blu assoluti arrivammo infine al corretto rifugio, giusto in tempo per incontrare il gruppo di “amici” al loro rientro dall’ascensione al ghiacciaio, per nulla messi in allarme dal nostro ritardo…
In particolare ci venne incontro il “caro” Marco, baffo curatissimo ad incorniciare un volto antipatico e a segnare la sbalorditiva statura di un metro e un pollice: “Ehilà chissivede! Ma che avete fatto ieri notte? Bisboccia?”
Gli opponemmo un silenzio complice ed ostile.
La montagna, bellissima e selvaggia, restava impassibile alle nostre vicende, ed indifferente sarebbe rimasta anche all’improbabile arrivo dei Tartari.