I ragazzi della Via Paal e la comparsa della coscienza - Consulenze e Consolanze Medico Filosofiche

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I ragazzi della Via Paal e la comparsa della coscienza

Frammenti autobiografici


Sono cresciuto a Milano. Anche la famiglia e lo spirito dei luoghi hanno una parte importante nella mia storia e nelle mie storie.
Scuola elementare è ricordo della bella calligrafia, con l’inchiostro perennemente sgocciolante e il suo piacevole odore. Il maestro Manini, per ironia dotato di mani enormi, ed unico maestro maschio di tutta la scuola, era un uomo metodico. Troppo.
Dal mattino poco dopo le ore otto, l’appello di noi alunni fu rituale inesorabile e quotidiano. Per cinque interminabili anni (sì! Cinque anni!) tutti i santi giorni il maestro iniziò l’appello rigorosamente in ordine alfabetico, approfittandone per appioppare una domanda al malcapitato. Il povero Amadei, disgraziatamente sempre primo della lista, per cinque anni venne tartassato con ogni possibile interrogazione. Per cinque anni il maestro non variò mai, dico mai, l’ordine dell’appello, sebbene, stanco, non riuscisse mai ad arrivare al termine. Raramente riusciva, dopo qualche ora, ad arrivare a chiamare Sironi, il mio cognome. Così l’ho (quasi) sempre scampata… E Zilocchi, per cinque anni, restò per lui un illustrissimo sconosciuto. Ancora oggi, dopo oltre cinquant’anni, ricordo perfettamente l’ordine dei cognomi di tutti e trenta i compagni delle elementari.
Terminato, in genere a metà, l’appello, il nostro Manini dalle enormi mani, si riprendeva dallo sfiancamento ed iniziava infiniti racconti, non ricordo bene su cosa. Ma era piacevole ascoltarlo. Non rammento tuttavia che avvenisse qualsivoglia trasmissione di grandi valori morali.
Il momento più bello, verso le 13, era il suono della campanella di fine scuola. Una liberazione per tutti ma soprattutto per l’esausto maestro.
All’uscita non c’erano i genitori a riprenderci, per nessuno e mai, non si usava.  A gruppetti di tre o quattro, noi bimbetti di sette-otto anni con i calzoni corti, estate ed inverno, sgambettavamo da soli verso casa. Il problema era l’attraversamento di Viale Scarampo, già allora, negli anni Sessanta, un’autostrada urbana rigorosamente senza semafori, tra le più trafficate di Milano.
A fine anno scolastico vigeva la regola del regalo al maestro, un dramma perché mamma (papà era assente, in questa e in tutte le altre occasioni) non sapeva mai che cosa fare e come risparmiare. Superò se stessa con un regalo veramente unico e prezioso: pensò bene di incartare la mia raccolta di fossili di preziosissime ammoniti, provenienti dalle mie solitarie ed autonome escursioni dell’estate precedente nella toscana “Valle dei Draghi” presso Chianciano, e donargliela, ovviamente senza consultarmi. «Ne ritroverai di più belle l’estate prossima», mi rassicurava mamma… Purtroppo l’estate successiva, a seguito di un incidente stradale, claudicante per un grave trauma al ginocchio, non potei proseguire nella ricerca. Per inciso: non rischiai comunque di incontrare un qualsivoglia medico, non fui mai portato in ospedale. Fui trasportato solo presso qualche perito assicurativo per i sostanziosi risarcimenti prospettati.
L’orientamento dei miei genitori circa la mia educazione fu ambivalente. Ad un iniziale rigore di stampo prussiano (avevo facoltà di leggere solo l’enciclopedia “Conoscere” comprata a rate, ma non lo feci mai nemmeno di striscio, perché sotto al tomo nascondevo sempre un prezioso Topolino, che, proibito, mi godevo infinitamente), seguì un permessivismo totale. Probabilmente per liberarsi di me e delle mie lagne, mamma iniziò a comprarmi vagonate di fumetti, in particolare Pecos Bill, del quale, in una fase verosimilmente protolibidica, mi innamorai perdutamente. Non ricordo di aver mai svolto a casa un qualsivoglia compito scolastico.
Nel pomeriggio era d’abitudine accompagnare i bimbi all’oratorio e al catechismo. Questo valeva per tutti i miei compagnucci, ma non per me: ritenuto “ribelle”, venni ben presto espulso dall’insegnamento dei sacri dogmi. Da allora non sono più riuscito a colmare le mie lacune di cultura cattolica.
Ciononostante, preti sicuramente di manica larga mi ammisero ai sacramenti, con preparazione zero e fede sottozero; a cresimarmi fu addirittura il cardinale Montini, di lì a poco futuro papa Paolo VI. Ma neanche lui fece il miracolo di convertirmi.
Ricordo bene il giorno della cresima, perché in tutta la vita fu l’unica volta che mamma e papà mi portarono a pranzo fuori casa.
Quindi, senza compiti scolastici, senza catechismo né oratorio, esauriti tutti i fumetti, nei lunghi pomeriggi c’era solo la “strada”. Dove andassi e chi frequentassi non importava proprio a nessuno. L’unico vincolo era quello di tornare in orario per cena. Non avendo orologio, in verità non rispettavo mai questo orario. Al puntuale ritardato rientro, affrontavo stoicamente ed orgogliosamente le botte di mia madre.
La “strada” era una giungla quasi - ma non ancora – urbana sorta attorno ai nuovi edifici della Milano palazzinara, con i suoi voraci e caotici cantieri del boom economico anni Sessanta, a contendere il verde a prati ed orti di una decadente periferia. Non era ancora la “Via Gluck”, magari! Come sempre il ricordo è soprattutto legato agli odori, quello piacevole dell’artemisia e quello nauseabondo della cacca, sì infinite cacche, umane e canine, disperse ovunque negli orti abbandonati. Quegli orti malsani e maleodoranti erano il nostro “regno”, il regno di noi ragazzi della Via Paal. Il capo della banda era il Granelli, bello, anzi bellissimo, anzi Lucio, perché per i capi valeva il nome e non il cognome; non c’erano bimbe, né a scuola (maschile), né nella “strada”.
L’appartenenza e la fedeltà alla banda erano assolute.
Questo era vitale nella competizione armata con le altre bande del quartiere. Gli scontri a pugni calci e bastonate fortunatamente non erano frequenti e il nostro “capo”, sempre bellissimo, era bravo nelle tecniche di evitamento e di controllo del territorio.
Un disgraziato o fortunato giorno, mentre camminavo solo fuori dal gruppo, ecco apparirmi e venirmi incontro a poche decine di metri un ragazzetto di una banda rivale, nemica mortale della nostra. Il gesto fu immediato ed istintivo: vidi un grosso sasso per terra, il tempo di raccoglierlo e di scagliarlo con tutte le mie forze. Non so come ma lo centrai in pieno volto, provocando grandi schizzi di sangue. Eppure ero già orbo allora - sebbene nessuno se ne fosse mai accorto, men che meno genitori ed insegnanti. Gli occhiali arrivarono solo molti anni dopo. Tant’è, lo presi in pieno.
Il colpo fu per quello sfortunato “nemico”, ma anche per me.
Qui cambia la mia vita. Non in conseguenza però del mio rientro a casa dopo quell’increscioso episodio –difatti era consuetudine presentarsi massacrati ed in genere i genitori non consideravano minimamente l’ospedale, anzi rincaravano la dose con nuove bastonate. Cambia la mia vita perché, per la prima volta, mi chiedo il significato di quello che sto facendo. Ecco la comparsa della coscienza, la mia più grande rivoluzione umana. Non per un Dio, non per una regola, non per un insegnamento, ma per un moto spontaneo interiore. Credo di essere veramente “nato” quel giorno. Cinquant’anni dopo rileggerò ciò che scriveva Kant per il proprio epitaffio: «Due cose riempiono la mente con sempre nuova e crescente ammirazione e rispetto, tanto più spesso e con costanza la riflessione si sofferma su di esse: il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me».
Per vedere meglio sul piano fisico, dovettero passare ancora molti anni. Una coscienziosa insegnante di Storia delle scuole medie convocò mamma per informarla che ero completamente orbo: quando misi per la prima volta gli occhiali (ovviamente quelli con montatura nera e spessa “passati dalla mutua”) fu il giorno più bello della mia vita, quale gioia vedere un mondo nuovo, a fuoco e brillante, che mai mi sarei immaginato!

 
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